"Ogni nuovo libro che leggo entra a far parte di quel libro complessivo e unitario che è la somma delle mie letture. (…) Da anni frequento questa biblioteca e la esploro volume per volume, scaffale per scaffale, ma potrei dimostrarvi che non ho fatto altro che portare avanti la lettura d’’unico libro." Italo Calvino

All’aprirsi del sipario, una vecchia soffitta… Nella vecchia soffitta, un baule… E nel baule, un libro… Dal tema borgesiano del libro unico che racchiuda in sé tutti i libri possibili, muove la nostra piccola odissea intertestuale: un percorso che, partendo dalla riflessione sul tragico approda al suo opposto complementare, il comico, snodandosi lungo i corridoi di una biblioteca immaginaria.

Le opere scelte confluiscono in un unico testo… in un textus, vale a dire in un tessuto, un intreccio, una trama: una doppia trama come doppia è la trama della realtà, contenuto ibrido di riso e di pianto.

Movendo dall’ipotesi suggestiva di Denis de Rougemont che, nel suo libro L’amore e l’Occidente, individua nella sfortunata storia di Tristano e Isotta il mito fondante del modo di concepire l’amore nella letteratura occidentale, lo spettacolo, compone un variegato mosaico di discorsi amorosi. Alcune preziose, tormentate figure letterarie prendono corpo sulla scena.

I giovani attori si cimentano nella pratica intertestuale, concertando in una molteplicità polifonica autori, testi, stili e linguaggi espressivi diversi. Alla voce narrante è affidato il compito di dare progressione drammaturgica e unità di significato a un tracciato combinatorio che, senza pesantezze didattiche, intreccia in una rete di rimandi incrociati, Bradbury, Verga, Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij, Mann, Tomasi di Lampedusa, Avati, Borges, Steiner.

I temi portanti (la passione amorosa nutrita di assenza e di nostalgia; il tempo nelle sue modulazioni esistenziali del ricordo, del rimpianto, della speranza, dell’attesa; la memoria autobiografica e l'espressione artistica come tentativi di ricucire nella narrazione le lacerazioni prodotte dal divenire) sono inquadrati nel tema fondamentale della traduzione della pagina letteraria nel linguaggio teatrale. Si tratta, più in generale, del rapporto fra il Libro e il Teatro, considerato alla luce del superamento delle rigida visione testocentrica secondo la quale il Teatro consiste esclusivamente nella rappresentazione di testi drammatici. Sono trattati, pertanto, come possibili punti di partenza di una messinscena teatrale i materiali drammaturgici più diversi: il racconto, il romanzo, la sceneggiatura cinematografica, le lettere, i diari (esemplari quelli scritti a quattro mani da Robert e Clara Schumann, dai quali emerge un tenero e struggente ritratto coniugale).

La presenza del “disturbatore”, un attore seduto in platea, inizialmente “vissuto” dal pubblico, anche grazie alle reazioni degli attori in scena, come un vero seccatore, produce uno straordinario effetto di straniamento. L'intervento di questo personaggio, che si rivelerà un “cuntastorie” accompagnato da un giovanissimo assistente, costituisce, sì, un momento comico e sdrammatizzante ma è al contempo fortemente funzionale all’arricchimento della tematica sviluppata nel corso dello spettacolo. Richiama, infatti, la tradizione popolare presentando, con tono a tratti commosso e divertito, l'anonimo poemetto cinquecentesco che racconta l'infelice storia della Baronessa di Carini.

Attraverso la rilettura di momenti paradigmatici del sentire amoroso attori e spettatori, si accostano ad autori e personaggi lontani nel tempo come a contemporanei, alla ricerca di affetti, passioni e condotte universali, per farne materia di una rinnovata grammatica dei sentimenti.

Forse è proprio nell’elaborazione di questo codice che il Teatro può riconoscere oggi uno dei suoi compiti, considerando che i linguaggi tecnologici, con le loro straordinarie possibilità di espressione e di comunicazione, di riproduzione e di trasmissione a distanza, fanno una concorrenza feroce al Libro, alterando il funzionamento e i vecchi equilibri dell’immaginario. Il surplus percettivo, insieme alle seduzioni del consumismo, produce quella che potremmo definire una nuova configurazione antropologica: la condizione esistenziale dell’uomo moderno, sottoposto al flusso incessante di stimoli e suggestioni, si rivela afflitta da una sorta di passività, di pigrizia interiore, di cecità emozionale, di “afasia del cuore”.

Ritrovare, dunque, il piacere di “leggere”, nel senso più ampio del termine, allargando la metafora del Libro fino a coprire tutti gli aspetti dell’esistenza, significa sostituire all’apatia e all’indifferenza una sensibilità acuta, in virtù della quale tornare a farsi stupire, colpire, prendere dalla bellezza, ovunque si manifesti. Ha scritto il poeta Robert Browning: Quando più ci sentiamo sicuri avviene qualcosa, un tramonto, il finale di un coro di Euripide, e siamo un altra volta perduti.

Recuperare la capacità estetica compromessa non è un esercizio fine a sé stesso, ha bensì un profondo valore morale: significa affinare, assieme a quelle della mente, le abilità del cuore; si traduce in capacità di ascolto, di attenzione, d’immedesimazione nel vissuto di coloro con i quali entriamo in rapporto, vuol dire imparare a “leggerne” le emozioni, a percepirne le esigenze e i sentimenti.

Nell’ultima parte, il nostro tragitto compie una svolta repentina, passando dalla tragedia assoluta, dall’evidenza inappellabile dell’assurdo atroce, all’assurdità del mondo e delle cose svelata dalla visione comica dell’esistenza. L’accostamento potrebbe risultare stridente ma siamo giustificati da precedenti illustri. La trilogia greca, che metteva in scena miti tragici, era seguita da un dramma satiresco. Per quanto ci risulta, questo epilogo farsesco sovvertiva radicalmente la visione tragica sottoponendo a caricatura e a demitiz­zazione il materiale precedente. Possiamo soltanto immaginare l'effetto contraddittorio che ne risultava: il comico che trasfigura anche i lati tragici dell’esistenza in una risata sarcastica. E Shakespeare? Nessuno come lui ha carpi­to il contenuto ibrido della vita, con il perpetuo intreccio “fra speranza e disperazione, fra inverno e primavera, fra la mezza­notte e il mezzogiorno dell’umanità”. Con lui, pagliacci, intermezzi comici, acrobazie affermano finalmente i loro diritti sulla scena tragica. E ancora: negli anni venti del ‘900 avremmo potuto assistere a un dramma di Ibsen o di Strindberg e subito dopo, nella tradizione del teatro commerciale dell'epoca, a una farsa di Achille Campanile, momento comico che, messo lì, a ridosso del teatro serio, ne costituiva il contro canto.

E’ proprio Achille Campanile, pur con qualche incursione della comicità postmoderna di Stefano Benni, a occupare da protagonista il momento comico della serata. Qui il gioco intertestuale si realizza mediante il montaggio di frammenti ritagliati dai romanzi, dalle commedie, dai racconti, e, soprattutto, dalla vertiginosa girandola delle “Tragedie in due battute”, dove Campanile “fa propria la tecnica delle sintesi futuriste per dissolvere i più scontati luoghi comuni”. Chiude lo spettacolo l’atto unico Vecchia Russia, irresistibile parodia della rivoluzione d’ottobre, vista come la semplificazione dei complicatissimi nomi, cognomi e patronimici degli ospiti in visita che il povero servo è costretto ad annunciare.

Campanile ha anticipato di decenni gli autori del cosiddetto Teatro dell’Assurdo: Beckett e il silenzio assoluto; Ionesco, “nello sfruttamento malizioso della tendenza della lingua a non esprimere precisamente quello che vorrebbe, prestandosi quindi ad equivoci che sfociano nell’apparente assurdità”.

Ci siamo presi qualche libertà con il ricchissimo materiale offerto da questo prolifico autore, ma ci piace pensare di aver giocato con parole e situazioni, un po' come fa Campanile, che, con leggerezza e senza prendersi troppo sul serio, “sorride, ironizza e capovolge il mondo”.