Come si fa a raccontare un evento spaventoso e inspiegabile come lo sterminio di sei milioni di ebrei? E’ la domanda che si pone chiunque si trovi a fare i conti con l’irrappresentabilità di quell’orrore. Abbiamo pensato di rispondere a questo interrogativo raccontando di ragazzi e ragazze. Cercando di evitare le trappole della retorica, che spesso “privilegia la metafora a scapito della vita e delle vite”, abbiamo provato ad avvicinarci in punta di piedi alle giovani esistenze che, proprio nel momento in cui si aprivano a un mondo di possibilità meravigliose, sono state escluse, perseguitate e poi definitivamente schiacciate dalla tragedia che ha travolto l’Europa nel secolo scorso. Quell’insensata barbarie non ha spazzato via soltanto vite umane ma anche talento, speranze, aspirazioni e progetti. “Quanta gente si renderà conto di cosa avrà significato avere vent’anni in questa spaventosa tormenta?” si domanda Hélène Berr in una pagina del suo diario, una delle più intense e raffinate testimonianze letterarie della Shoah. Studentessa universitaria nella Parigi occupata dai tedeschi, Hélène sarà deportata nel 1944 a Bergen-Belsen dove morirà l’anno dopo. Tra le sue letture preferite, il poema giovanile di Rilke da cui è tratto il verso che dà il titolo al nostro spettacolo: “Ma in estate noi prendemmo commiato…”.

Primo quadro: Hélène e Jean
“Ho paura di non esserci più quando Jean tornerà. Non ho paura di quello che potrebbe succedermi; credo che l’accetterei perché ho accettato molte cose dolorose. Temo che il mio bel sogno non possa concretizzarsi. Non temo per me ma per quella bella cosa che avrebbe potuto essere.”

Hélène Berr

Secondo quadro: Il diario di una ballerina ebrea
“A sei anni andai alla mia prima lezione di danza, e al ritorno a casa comunicai con sicurezza che sarei diventata una ballerina. Senza che nessuno se ne rendesse conto era stata presa la decisione di tutta una vita. E così fu. La danza divenne a poco a poco la forza vitale della mia esistenza. Mi si apriva un mondo di possibilità meravigliose. Poi, improvvisamente, tutto finì.”

Helen Lewis

Terzo quadro: C’era l’amore nel ghetto
“Non ho il diritto di parlare a nome degli altri. Ma ho il dovere di vegliare affinché il loro ricordo non scompaia. E allora voglio ricordare Mordechaj, il comandante dell’insurrezione, che morì suicida nel bunker di Via Mila, a Varsavia. Aveva ventiquattro anni. E Zosia, Janek, Guta, Klara, Mark, Paula, Viktor, Henrik, Jan, Maria, Rubin, Michal… Sono ormai l’ultimo che conosceva questi ragazzi per nome e cognome, e probabilmente nessuno li ricorderà più. Bisogna che rimanga di loro qualche traccia.”

Marek Edelman

Quarto quadro: Dietro le quinte
“In seguito all’introduzione delle leggi che avrebbero dovuto regolamentare i rapporti dello Stato Italiano con i cittadini di religione ebraica fui costretto ad abbandonare il Centro Sperimentale di Cinematografia e a lavorare in teatro sotto falso nome.”

Arnoldo Foà

Quinto quadro: Roma, 16 ottobre 1943
“La razzia si protrasse fino verso le tredici. Quando fu la fine, per le vie del Ghetto non si vedeva più anima. Verso l’alba del lunedì i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di Roma-Tiburtino dove li stivarono su carri bestiame. Il treno si mosse alle quattordici.”

Giacomo Debenedetti

Sesto quadro: Linguaggio e silenzio
“… per una comprensione delle radici filosofiche, politiche ed estetiche del disumano, del paradosso per cui la moderna barbarie scaturì, in una qualche maniera segreta, forse necessaria, dal cuore stesso della civiltà umanistica. Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe e Rilke la sera, suonare Schubert e Bach e il mattino dopo recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz.”

George Steiner